Cosa succede nella mente quando si acquisisce una lingua, la sua grammatica, il suo lessico (e come farlo succedere) di Paolo E. Balboni

(A cura di Ilaria Bada, Ornella Bernardi, Adriana Calise e Antonietta Vinciguerra)

Dopo il successo della prima edizione, anche quest’anno si è svolto a Barcellona il II Incontro pratico per insegnanti d’italiano LS, organizzato dalla Casa delle Lingue in collaborazione con l’Escola d’Idiomes Moderns dell’Università di Barcellona.

Seminari interessanti, ospiti illustri, partecipanti provenienti da paesi vicini e lontani ed altro ancora! Per chi si fosse perso questo intenso fine settimana, prossimamente potrà riviverlo attraverso i nostri post.

Cominciamo dall’intervento che ha aperto l’incontro, il seminario del Prof. Balboni su “Cosa succede nella mente quando si acquisisce una lingua, la sua grammatica, il suo lessico (e come farlo succedere)”.

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Sensi ed emozioni, ovvero accenni sulla bimodalità, direzionalità e contestualità dell’apprendimento linguistico

Negli ultimi venti anni numerosi studi hanno illustrato il funzionamento del cervello umano in relazione all’apprendimento delle lingue. Sebbene già Aristotele avesse intuito che l’emisfero destro del cervello è la sfera del globale, che ci permette tra l’altro di cogliere l’umorismo, di ritenere il lessico e di formulare associazioni tra idee – come le metafore e le analogie – mentre l’emisfero sinistro gestisce la sintassi, solamente in tempi più recenti ne abbiamo avuto le prove sperimentali.

Captura de pantalla 2015-05-25 a la(s) 20.37.49* Osservando la foto in alto, provate a leggere il colore anziché la parola e avrete un esempio di conflitto tra i due emisferi.

Dunque, assodata la bimodalità del cervello, in che modo funzionano questi due emisferi? Quando impariamo una lingua, la direzione in cui procediamo è dal globale al sintetico, passando per una fase analitica. Il LAD (Language Acquisition Device), teorizzato da Chomsky, funziona infatti in questo modo:

  • osserva (es. regolarità di parlo-mangio-canto)
  • ipotizza (verbo andare=io *ando)
  • verifica (correzione: si dice vado!)
  • fissa (io vado)
  • sistematizza (parlo-mangio-canto-vado).

In parziale disaccordo con l’ipotesi chomskyana, lo psicologo Jerome Bruner sottolinea l’importanza del LASS (Language Acquisition Support System) che condiziona in modo determinante l’attività del LAD. Il LASS è sostanzialmente un meccanismo di supporto sociale all’apprendimento, per cui senza l’aiuto esterno di un adulto, un bambino non sarebbe in grado di acquisire una lingua. Anche l’insegnante è parte del LASS e potrà conseguentemente solo favorire l’apprendimento di una lingua, non insegnarla (come già aveva intuito von Humboldt). Di conseguenza, ottengono sempre maggiore importanza in questo processo fattori quali il contesto di apprendimento, come verrà poi ulteriormente evidenziato da Krashen nella SLAT (Second Language Acquisition Theory).

Il piacere di farcela, ovvero cosa succede nel cervello quando impariamo

Quando si impara, i neuroni stabiliscono tra loro delle sinapsi, ovvero collegamenti, che se non vengono riutilizzate si spezzano, e ciò che è stato momentaneamente appreso viene presto dimenticato. L’acquisizione vera e propria, che comporta la stabilizzazione delle sinapsi, avviene infatti solo 3 mesi dopo la loro prima formazione. Inoltre, in un contesto di apprendimento sereno, il cervello trasforma l’adrenalina in noradrenalina, un ormone che facilita la creazione delle sinapsi e quindi l’apprendimento. In uno stato di stress invece il corpo produce il cortisolo, il cosiddetto ormone dello stress, che blocca l’apprendimento. Sfida, sorriso e divertimento creano quindi facilmente le sinapsi. Paura, stress e ansia da prestazione, al contrario, le inibiscono.

Acquisire il lessico, ovvero del perché quando si va in giro ci si porta dietro un vocabolario (e non una grammatica)

Nell’insegnamento del lessico si deve tener conto di tre principi di base di funzionamento della mente:

  1. la creazione di campi semantici e mappe lessicali (utilità delle mappe mentali, che stimolano sia la memorizzazione visiva sia quella logica).
  2. la memorizzazione di sistemi completi: le coppie di opposti favoriscono l’apprendimento e possono essere poi ampliate.
  3. le intelligenze multiple – almeno sette, secondo gli studi di Gardner – e i due tipi di memoria (logico-verbale e visiva). 
Esempio di coppie di opposti

Esempio di coppie di opposti

Sulla base di questi principi, come docenti, possiamo utilizzare una serie di attività didattiche – oltre a quelle più classiche – che risulteranno efficaci per l’acquisizione del lessico, quali ad esempio:

  1. accoppiamento parola-immagine (che vada oltre il classico Memory e includa anche la ricostruzione dei possibili campi semantici di quella parola);
  2. ricostruzione lessicale di un ambiente o oggetto complesso (es. far descrivere nei dettagli un luogo a partire da un’immagine o richiedere agli studenti di nominare mentalmente tutti gli oggetti che vedono in un ambiente quotidiano, come il posto di lavoro o la cucina di casa propria);
  3. puzzle (es. ritagliare le immagini di due diverse automobili, mescolare i pezzi e consegnarli a una coppia di studenti che, per ricostruire ciascuno la propria automobile, devono chiedersi a vicenda le parti mancanti);
  4. alterazione (es. nei livelli alti fornire un elenco di nomi alterati e chiederne la connotazione);
  5. perifrasi a coppie (es. consegnare a uno studente un cruciverba vuoto e a un altro lo stesso cruciverba già completato, chiedendo al secondo di creare le definizioni necessarie perché anche il compagno possa inserire le parole nelle caselle);
  6. connotazioni interculturali (ad es. far cercare agli studenti parole che sono simili ma che hanno connotazioni diversissime tra la L1 e la L2/LS, come può essere all’università la parola “appello”);
  7. Captura de pantalla 2015-05-26 a la(s) 00.26.56polisemie (es. far rinvenire allo studente i diversi significati che può assumere la parola “piano”);
  8. co-occorrenze obbligate (es. far cercare allo studente i significati delle diverse collocazioni di un sostantivo o di un verbo);
  9. traduzione (ad es. dall’italiano alla L1, in classe o a casa, per portare gli studenti a riflettere profondamente sul lessico);
  10. tecnica di riflessione sul lessico (al fine di sviluppare la capacità di analisi e motivazione delle idee dello studente, A. Mollica suggerisce un’attività collaborativa, che consiste nel proporre frasi, aggettivi e verbi su un tema dato, prima a coppie e poi in plenum, durante la quale gli studenti arrivano letteralmente a difendere le proprie scelte lessicali).

Grammatica sì, ma quando? Ovvero sul come produrre acquisizione (e non apprendimento)

Costruire sinapsi è fatica. Da dove viene, quindi, l’energia? Quando si desidera imparare, si agisce fondamentalmente dietro l’impulso di tre spinte: il bisogno, il dovere (o il senso del dovere introiettato) e il piacere. Quest’ultimo è dei tre bisogni quello più potente: affinché si realizzi l’acquisizione è necessario che il filtro affettivo non sia inserito e che si verifichi la formula khrasheniana i+1 (alle informazioni già acquisite, aggiungerne altre in modo graduale). Per fare, dunque, grammatica in modo efficace è necessario sfruttare il piacere di imparare, di scoprire, di costruire le regole da soli e di sistematizzare. Così facendo, lo studente creerà la propria grammatica “fai da te”, che è l’unica davvero utile.

In questo processo, l’elemento ludico ci permette di giocare con elementi altrimenti percepiti spesso come estranei o “noiosi”, come la terminologia della grammatica, attraverso l’impiego di oggetti come i dadi o riusando giochi di strategia come il classico Tris.

Quale sarà a questo punto il ruolo dell’insegnante? Diventerà facilitatore del processo, arbitro in caso di dubbi e mai giudice, bensì fonte autorevole in caso di controversie.

Questione di metodo

Captura de pantalla 2015-05-27 a la(s) 23.01.18Infine, Balboni ha sottolineato l’importanza del gioco quale chiave di volta per un apprendimento efficace, perché stimola la mente e abbassa notevolmente il filtro affettivo, che -come ben sappiamo- rischia di compromettere l’apprendimento.

Ribadendo quanto sia importante concentrare l’attenzione sui processi di apprendimento e non solo sul prodotto finale di questa elaborazione, l’intervento si è chiuso con un accenno all’intercomprensione per educare al processo, senza temere l’errore -che, al contrario, è un’occasione da valorizzare- ed evidenziando il ruolo dell’interlocutore che, nello sforzo di comprensione che mette in atto, è capace di riempire gli eventuali vuoti di senso.

Sitografia consigliata

  • CRDL (bibliografia riviste saggi pubblicazioni gratuito)
  • BELI (bibliografia completa di testi di insegnamento dell’italiano pubblicati in Italia)
  • ITALS (materiali didattici)
  • GLOBES-DEAL (glottodidattica per alunni affetti da dislessia e con bisogni educativi speciali)
  • EL.LE (rivista online gratuita)
  • SAIL (collana di libri gratuiti)
  • LABCOM (laboratorio di teoria della comunicazione interculturale)
  • EduMusic (uso della musica nell’insegnamento dell’italiano L2/LS)
  • DICROM (intercomprensione romanza)
  • MEAL (migliorare l’efficienza nell’apprendimento linguistico videolezioni gratuite con autovalutazione)

 

Bibliografia

Balboni. P. E. (2002). Le sfide di Babele. Insegnare le lingue nelle società complesse. Torino: Utet.

Balboni, P. E. (2014). Didattica dell’italiano come lingua seconda o straniera. Roma: Bonacci Editore

Bruner, J. (1975). The ontogenesis of speech acts. Journal of Child Language, 2, 1-19

Bruner, J. (1983). Child’s Talk. Learning to Use Language. New York: W.W. Norton

Chomsky, N. (1965). Aspects of  the Theory of Syntax. Cambridge, Mass. MIT Press.

Gardner, H. (1983). Frames of Minds. The Theory of multiple intelligence.  New York: Basic Books.

Krashen S.D. (1981). Second Language Acquisition and Second Language Learning. Oxford: Pergamon

 

La valutazione nell’approccio orientato all’azione

Quando si comincia a parlare di valutazione entriamo in un mondo complesso su cui si è discusso e si discute da molto tempo. Con il Quadro comune europeo di riferimento per le lingue (QCER), apparso nel 2001, la didattica e la valutazione sono cambiate perché è cambiato fondamentalmente  il modo di pensare la lingua e gli apprendenti. Il Quadro difende l’idea che

L’uso della lingua, incluso il suo apprendimento, comprende le azioni compiute da persone che, in quanto individui e attori sociali, sviluppano una gamma di competenze sia generali sia, nello specifico, linguisticocomunicative. Gli individui utilizzano le proprie competenze in contesti e condizioni differenti e con vincoli diversi per realizzare delle attività linguistiche.

Di conseguenza se si vede la lingua come un mezzo per poter fare cose e gli apprendenti come agenti sociali che attivano le proprie competenze generali e specifiche per raggiungere i propri obiettivi, la valutazione non può limitarsi a prendere in esame solamente una parte e i test di valutazione non possono essere separati dall’approccio metodologico-didattico adottato in classe (Chini & Bosisio, 2014).

L’effetto washback che il Quadro ha avuto sulla valutazione è stato di certo positivo sulla didattica perché ha portato l’insegnante a tener conto non solo della correttezza morfologica e sintattica delle produzioni degli studenti ma anche a prestare attenzione all’interazione orale, agli elementi pragmalinguistici, alla padronanza del lessico che fino a quel momento non erano stati presi in considerazione. Bisogna però pensare un approccio alla valutazione più ampio, una valutazione dell’apprendimento ma anche una valutazione per l’apprendimento. Ci sono già a disposizione strumenti in questo senso, il portfolio descritto nel Quadro comune europeo di riferimento per le lingue ne è un esempio.

Se è importante unire la valutazione all’approccio metodologico-didattico e se il tipo di valutazione per questo effetto-riflusso dagli esami ai corsi è determinante, come valutare le competenze degli studenti in un approccio orientato all’azione?

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Bravissimo – Prove di verifica A1 

Nella prospettiva didattica descritta nel QCER si chiede all’insegnante di proporre agli apprendenti dei compiti che i discenti dovranno eseguire attraverso una serie di interazioni sociali reali mettendo in gioco tutte le loro abilità: linguistiche e non. La valutazione dovrà essere coerente con l’approccio e dovrà proporre situazioni di valutazione in cui si tengono in conto tutte le abilità dello studente. La difficoltà risiede nel valutare competenze linguistiche a partire da situazioni reali. C’è chi ha deciso di far cucinare un piatto ai propri studenti per valutare la loro competenza nella comprensione scritta. Se il piatto preparato era riuscito bene e riscontrava il gradimento dei commensali voleva dire che l’apprendente aveva capito bene le istruzioni della ricetta che aveva letto (ma bisognerebbe anche tener conto il talento in cucina dello studente in questione!). Un modo simpatico per dire che nell’approccio orientato all’azione la valutazione non si dovrebbe limitare agli aspetti prettamente linguistici.

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Bravissimo – Prove di verifica A1 

Questa valutazione che possiamo denominare qui “naturale” sarà però difficile da realizzare in un contesto scolastico-accademico, bisognerà cercare un punto intermedio in cui gli studenti possono fare la prova di verifica delle competenze, motivati non tanto (o non solo) dal desiderio di realizzare correttamente l’esame ma anche di raggiungere l’obiettivo extralinguistico proposto dal compito. Si tratta di una valutazione olistica in cui si propone un contesto globale di esperienza della lingua, una valutazione più equa e reale che permette di osservare la competenza linguistica dei discenti da diversi punti di vista in cui si favorisce la collaborazione e diminuisce la competizione nelle attività da realizzare a coppia.

 Bibliografia

Birello, M., Nanni, N., Vilagrasa, A., Zannier, I. (2014). Bravissimo. Corso d’italiano. Prove di verifica. Barcellona: Casa delle Lingue.

Chini, M. e Bosisio, C. (eds.) (2014) Fondamenti di Glottodidattica. Apprendere e insegnare le lingue oggi. Roma: Carocci editore.

Consiglio d’Europa. (2001). Quadro comune europeo di riferimento per le lingue: apprendimento, insegnamento, valutazione. Firenze: La Nuova Italia

Grammatica sì o no… ma soprattutto quale grammatica e come insegnarla!

Uno degli aspetti più dibattuti nell’ambito della didattica di una lingua straniera, ma anche la lingua materna, è sicuramente l’insegnamento della grammatica. Sono molti gli aspetti oggetto di discussione: Quale grammatica insegnare? Come insegnarla? Deduttivamente o induttivamente? Quanta grammatica insegnare? Perché insegnarla?

Le proposte metodologiche che si sono susseguite negli anni hanno proposto diversi modi di affrontare la grammatica in classe. All’approccio comunicativo e allapproccio orientato all’azione sono state spesso rivolte delle critiche proprio per il ruolo che assume la grammatica in queste prospettive didattiche. Vi è la convinzione piuttosto generalizzata che con gli approcci comunicativi non si tratti in classe la grammatica. Dal nostro punto di vista è solo una questione di come si pensa la lingua e la funzione che ha e, di conseguenza, la finalità dell’insegnamento della grammatica. Si tratta quasi di una questione filosofica. Il modo di concepire la lingua e quindi la grammatica metterà in risalto le differenze tra un approccio e l’altro perché le sue diverse accezioni conducono a diverse interpretazioni sia dei contenuti sia delle finalità dell’insegnamento grammaticale (Chini e Bosisio, 2014: 115).

grammaticaL’Enciclopedia Treccani definisce la “grammatica” come una  rappresentazione sistematica di una lingua e dei suoi elementi costitutivi, articolata tradizionalmente in fonologia (dottrina dei suoni di cui è costituita la parola), morfología, sintassi, lessicologia (studio scientifico del sistema lessicale di una lingua) ed etimologia.

Si tratta di un’accezione piuttosto ampia, una “descrizione di un sistema” che riesce a includere diversi livelli del sistema e in cui sarà anche facile introdurre riflessioni a livello pragmatico e sociolinguistico, aspetti fondamentali per chi impara una lingua straniera (e anche la propria L1). Tener presente però tutti questi aspetti implica una scelta metodologica che non si limita a descrivere il sistema di funzionamento di una lingua ma che richiede ai discenti un ruolo più attivo e che li porta a riflettere sulla lingua e a parlarne.

Durante molto tempo l’insegnamento della lingua straniera era pianificato a partire da un contenuto grammaticale seguendo un procedimento deduttivo di acquisizione della regola, l’approccio orientato all’azione propone invece un modo di procedere diverso. Si parte dall’analisi dei bisogni comunicativi degli studenti per l’esecuzione del compito finale ed è a partire da questi bisogni che si pianifica l’insegnamento grammaticale. È questo il criterio con cui si introducono i contenuti grammaticali che, attraverso la sequenza di attività che porteranno i discenti ad eseguire i compiti intermedi e finali, saranno analizzati e messi in pratica. Questo modo di procedere e lavorare stimola la presa di coscienza degli alunni sulla lingua e attiva i meccanismi di riflessione e le strategie comunicative (Martín Peris, 2004). Permette di creare un ponte tra il sapere cosciente e il sapere non cosciente, quel doppio meccanismo nella costruzione del sapere di una lingua a cui si riferisce Ellis (1990) quando parla dell’input centrato nel significato che porta all’uso comunicativo della lingua e che consente di introdurre le regole in maniera induttiva e dell’input incentrato sulla forma, che apporta l’insegnamento diretto ed esplicito del funzionamento grammaticale della lingua.

Bravissimo! 2

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Questo modo di concepire l’insegnamento della lingua e della grammatica apre le porte a un modo diverso di lavorare in classe che cerca di tener conto della complessità della lingua e di presentarla seguendo il criterio della necessità. Non importa se un contenuto grammaticale è presentato solo parzialmente se per raggiungere lo scopo comunicativo che ci si è prefissi sono necessari solo certi aspetti di quel determinato contenuto e se la scelta è dettata dalla funzionalità.

Per riprendere il titolo della grammatica descrittiva dell’italiano di Michele Prandi (2006) Le regole e le scelte, l’insegnamento della lingua e della grammatica è fatto sia di regole che di scelte in quanto la grammatica di una lingua è un sistema che include regole non negoziabili, rigide (che hanno validità assolute) e opzioni alternative (che producono differenze di significato) che lasciano ampi margini di scelta al parlante. Nel discorso questi due modi di funzionare si danno il cambio, l’insegnante non può non tenere presente questa alternanza. L’insegnante può (e deve) attuare delle scelte e prendere delle decisioni al momento di pianificare la propria lezione con l’obiettivo di dare risposta ai bisogni comunicativi reali dei discenti.

BIBLIOGRAFIA

Chini, M. e Bosisio, C. (2014). Fondamenti di glottodidattica. Apprendere e insegnare le lingue oggi. Roma: Carocci Editore.

Enciclopedia Treccani, www.treccani.it

Martín Peris, E. (2004). Que significa trabajar en clase con tareas comunicativas?. In RedEle, Numero 0,

www.mecd.gob.es/dctm/redele/Material-RedEle/Revista/2004_00/2004_redELE_0_18Martin.pdf?documentId=0901e72b80e0c9e3

Prandi, M. (2006). Le regole e le scelte. Introduzione alla grammatica italiana. Torino: UTET.

Canzonette? Sì, ma molto di più…

A molti la parola “canzonette”, farà venire in mente Sono solo canzonette di Edoardo Bennato e probabilmente anche la canzone Grazie dei fiori bis che Renzo Arbore, Nino Frassica e l’allegra compagnia del programma Indietro tutta si dilettavano a cantare. Arbore e Frassica si rifacevano alla canzone Grazie dei fiori con cui Nilla Pizzi vinse il primo Festival di Sanremo nel 1951. Pensando a Bennato forse verrà in mente anche Il gatto e la volpe e quindi forse Pinocchio e Collodi… E così potremmo continuare a divertirci a collegare canzoni, letteratura e programmi televisivi.

Quando parliamo di canzone, parliamo di lingua e ovviamente di cultura. La canzone in un contesto di apprendimento di una LS/L2 è uno strumento prezioso in mano dell’insegnante perché

Le canzoni in L2 rendono più accessibile la conoscenza di nuovo lessico o l’ampliamento del bagaglio lessicale già posseduto. Rassicurano l’apprendente circa le sue potenzialità di comprensione della L2 rinsaldando la fiducia nelle proprie abilità di ricezione e decodifica. Contribuiscono alla fissazione mnemonica di strutture linguistiche sia sul piano sintattico sia sul piano lessicale e semantico consentendo all’apprendente di fare ricorso, quasi inconsciamente, a determinati segmenti della L2 nella propria performance linguistica e, dunque, in fase di produzione. (Compagno, Di Gesù, 2005:134)

note_musicali_800_800L’importanza delle canzoni in classe non si limita però al “binomio lingua/musica che favorisce l’apprendimento linguistico poiché la voce contiene ciò che l’orecchio sente e percepisce nel discernere suoni/significati precisi lungo la catena fonematica” (Compagno & Di Gesù, 2005:134), la musica è di per sé una manifestazione della cultura di un popolo e molto spesso la canzone ci mette di fronte a una “cultura” più ampia, fatta di impliciti che devono essere spiegati allo studente straniero affinché possa capire e apprezzare un testo. È anche un mezzo potentissimo per avvicinare il discente alla cultura straniera e sviluppare la sua competenza socioculturale.

La canzone ci permette di tracciare la storia di un popolo e di un paese, di fare un quadro delle vicende della canzone italiana e di descrivere l’evoluzione del costume dell’Italia moderna, con interessanti spunti per osservare i cambiamenti della lingua italiana (Birello & Fantauzzi, 2001).

Non è ovviamente possibile qui tracciare un quadro completo di come è cambiata la canzone italiana, ci limiteremo a dare solo alcuni esempi di quanto e come le canzoni siano uno strumento utile per descrivere la storia di una società e della sua musica.

Il Festival di Sanremo quando nasce nel 1951 si rivolge a un’Italia ancora prevalentemente arcaica e rurale in cui la maggior parte della popolazione parla solo il dialetto. Il tema dell’amore è incontrastato. I testi delle canzoni con cui Nilla Pizzi vince le prime due edizioni Grazie dei fiori (1951) e Vola colomba (1952) ne sono un buon esempio. Sono melodie legate alla tradizione precedente, con espressioni di ispirazione letteraria. Il primo grande cambiamento avviene nel 1958 quando Domenico Modugno vince il festival con Nel blu dipinto di blu, canzone con un testo vagamente surrealista Modugno_durante_l'esibizione_al_Festival_di_sanremo_del_1958usando parole liberatorie ed eccitanti (Borgna,1992). Modugno sul palco canta allargando le braccia, un gesto ardito per l’epoca dato che fino a quel momento i cantanti stavano fermi sul palco molto spesso con la mano sul cuore.

Da questo momento il rinnovamento è inarrestabile, gli urlatori Mina e Celentano contribuiscono enormemente al cambiamento. Mina che con la sua estensione vocale rompe tutti gli schemi e i testi delle canzoni di Celentano diventano lo specchio fedele di una società che usciva dal provincialismo e ruralismo.

Lucio Battisti è sicuramente il simbolo del rinnovamento degli anni ’70. Battisti è stato un anticipatore, con musiche d’avanguardia e testi geniali che sanciscono la fine della spensieratezza che aveva contraddistinto la canzone degli anni ’60. A Milano tra gli anni ’60 e ’70 si afferma il duo Jannacci e Gaber ( il cantore dei pover crist e il filosofo ignorante) che si fanno conoscere in giro con canzoni surrealiste e dissacratorie. Gli anni ’70 sono anche gli anni della definitiva affermazione dei cantautori, Fabrizio De Andrè in testa. Il ritmo delle sue canzoni nasce sempre con le parole che abitualmente sono di uso quotidiano. Con Vecchioni, De Gregori e Guccini, la canzone si sforza di fare i conti con la realtà, si cerca di approfondirne le problematiche. Paolo Conte si è dedicato invece a descrivere la provincia italiana. Il tono delle sue canzoni è volutamente dimesso, vicino al colloquio, usa un linguaggio scarno nonostante le frequenti citazioni letterarie.

Gli anni ’80 sono gli anni del rock italiano. Dal punto di vista linguistico è una rivoluzione. L’italiano non è una lingua che si adatta facilmente ai ritmi rock per la scarsità di parole accentate nell’ultima sillaba, dei monosillabi, delle parole che terminano in consonante. La comparsa sulla scena musicale italiana di Vasco Rossi è un vero e proprio stravolgimento sia a livello di immagine che di testi. I suoi testi provocatori e apparentemente sconclusionati, i versi colloquiali, le storpiature grammaticali e le interiezioni uniti alla filosofia di vita che descrive gli avvalgono migliaia di fan (Borgna, 1992).

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Negli anni ’90 c’è un risorgere della canzone in dialetto: dagli Almamegretta che cantano in napoletano, ai Pitura Freska che lo fanno in veneto, ai Mau mau in piemontese. Con questa ricchezza si potrebbe aprire un capitolo interessante per parlare in classe della varietà linguistica italiana.

 

Bibliografia

Birello, M., Fantauzzi, S. (2001). Cantare in italiano. In Actes IV Jorndaes de llengües estrangeres, Tarragona, Generalitat de Catalunya, Departament d’Ensenyament, 143-148.

Borgna, G. (1992). Storia della canzone italiana. Milano: Mondadori.

Compagno, G. Di Gesì, F. (2005). Le strategie d’intercomprensione spagnolo/italiano nell’analisi contrastiva delle canzoni. In Actas XXIII AISPI, http://cvc.cervantes.es/literatura/aispi/pdf/22/ii_09.pdf

Segnali discorsivi… così difficili da insegnare e da imparare.

Qualsiasi insegnante in un determinato momento della sua carriera si è trovato a riflettere su come spiegare e far capire l’uso agli studenti di queste particelle che rivestono un ruolo così determinante nel discorso. Ardua impresa…!

La prima difficoltà risiede nell’ampia terminologia impiegata dagli studiosi per riferirsi a queste particelle e alla loro definizione. Sono state infatti chiamate in vari modi marcatori pragmatici (Stame, 1999), segnali discorsivi (Bazzanella, 1995, 1994), connettori testuali (Berretta, 1984). Bazzanella (1994) li definisce come quegli elementi che

svuotandosi in parte del loro significato originario, assumono dei valori aggiuntivi e servono a sottolineare la strutturazione del discorso, a connettere elementi frasali, interfrasali, extrafrasali ed a esplicitare la collocazione dell’enunciato in una dimensione interpersonale, sottolineando la struttura interattiva della conversazione (p. 150).

e per i quali il contesto, linguistico ed extralinguistico, ha un’enorme importanza in quanto incide sul loro uso e sulla loro interpretazione.

La seconda difficoltà risiede nel fatto che si tratta per lo più di congiunzioni, avverbi, interiezioni ed espressioni desemantizzate che rivestono varie funzioni. L’insegnante di italiano LS che intraprende l’impresa di introdurre i segnali discorsivi in classe deve quindi innanzitutto fare un’analisi del contesto e prendere delle decisioni su quali funzioni possono essere trattate in quella determinata lezione. Il che è più facile a dirsi che a farsi. Dato che però i segnali discorsivi hanno il ruolo fondamentale di rinforzare l’organizzazione argomentativa del discorso, spesso possono rappresentare un ostacolo per coloro che stanno apprendendo una LS (Birello, 2005; Sainz, 2009; Ferroni, 2013) che si vedono costretti ad ricorrere alla lingua materna o lingua comune per dare una risposta alla necessità di strutturare il discorso. Diventa necessario perciò un intervento didattico e sarebbe bene affrontare l’argomento fin dai livelli più bassi e costruire così la competenza linguistico-discorsiva dei discenti in senso più ampio.

La terza difficoltà è di tipo didattico. Come riuscire a creare delle situazioni comunicative in cui lo studente sia portato ad usare in modo naturale e logico (senza che sia una semplice ripetizione di una struttura) il segnale discorsivo adeguato?  L’approccio orientato all’azione sembra essere una risposta. Questo approccio infatti apre importanti spazi per le attività interattive e l’uso della lingua orale è presente anche nelle attività di comprensione scritta e orale e in quelle di espressione scritta. Gli studenti sono portati a negoziare e prendere decisioni e quindi a usare una lingua “genuina” che scaturisce dalla propria dinamica della lezione. Questa richiesta costante di uso della lingua orale offre all’insegnante delle opportunità uniche per presentare e far usare ai discenti i segnali discorsivi fin dai livelli iniziali. Gli studenti realizzano quindi delle attività in cui l’utilizzo del segnale discorsivo ha un senso perché risponde sia a quanto richiesto dall’attività in questione sia alle necessità reali di uso della lingua per la gestione di quell’attività.

Bibliografia

Bazzanella, C. (1995). I segnali discorsivi. In: Renzi, L.; Salvi, G.; Cardinaletti, A. Grande grammatica italiana di consultazione, vol. III. Bologna: Il Mulino, pp. 226-257.

Bazzanella, C. (1994). Le facce del parlare. Firenze: La Nuova Italia, pp. 145-174.

Berretta, M. (1984). Connettivi testuali in italiano e pianificazioni del discorso. In: Coveri, L. (a cura di.). Linguistica testuale. Roma: Bulzoni, pp. 237-254.

Birello, M. (2005). Las alternancia de lenguas en la clase de italiano lengua estranjera. Su uso en las interacciones en subgrupos de alumnos adultos en Cataluña. Tese de Doutorado em Didàctica de la Llengua i de la Literatura. Departament de Didàctica de la Llengua i la Literatura, Universitat de Barcelona, Barcelona.

Ferroni, R. (2013). As estratégias de comunicação durante a realização de tarefas feitas em colaboração por aprendizes de línguas próximas: rumo ao plurilinguismo. Tese de Doutorado em Língua, Literatura e Cultura Italianas. Departamento de Letras Modernas, Universidade de São Paulo, São Paulo.

Sainz, E. (2009). ¿Por qué resulta difícil comprender un marcador del discurso? In: Jamet, M.-C. (a cura di.). Orale e intercomprensione tra lingue romanze: ricerche e implicazioni didattiche. Venezia: Libreria Editrice Cafoscariana, pp. 125-148.

Stame, S. (1999). I marcatori della conversazione. In: Galatolo, R.; Pallotti, G. (a cura di). La conversazione: un’introduzione allo studio dell’interazione verbale. Milano: Raffaello Cortina Editore, pp. 169-186.

Insegnare e imparare con i task.

La parola “compito” in italiano è sicuramente molto connotata e fa venire subito in mente una situazione di classe in cui si valutano le competenze degli studenti in una determinata materia o un determinato tema.  Non che questo non sia successo anche in altre lingue basti pensare a “task” in inglese ” o “tarea” in spagnolo che rimandano all’idea di “task” intesa come attività e “compiti a casa” rispettivamente.

L’approccio orientato all’azione propone il concetto di “task” o “compito” come unità essenziale di programmazione e insegnamento (Richards & Rodgers, 2001). Il Quadro Comune Europeo di Riferimento per le lingue fa una descrizione ben precisa del compito:

“Il  compito è un’azione finalizzata che l’individuo considera necessaria QCERper raggiungere un determinato risultato nell’ambito di un problema da risolvere, un impegno da adempiere o un obiettivo da raggiungere. Questa definizione può comprendere un’ampia gamma di azioni quali spostare un armadio, scrivere un libro, ottenere certe condizioni nella negoziazione di un contratto, giocare a carte, ordinare un pasto al ristorante, tradurre un testo in lingua straniera o lavorare in gruppo per preparare un giornale di classe” ( QCER, 2002: 12-13)

 

Qualche pagina dopo nel secondo capitolo del QCER si può leggere:

La comunicazione e l’apprendimento implicano l’esecuzione di compiti che non sono esclusivamente linguistici, anche se implicano attività linguistiche e mettono in gioco la competenza comunicativa dell’individuo. Questi compiti, quando non costituiscono una routine e non sono eseguiti in modo automatico, richiedono l’impiego di strategie di comunicazione e di apprendimento. Nella misura in cui, per portarli a termine si ricorre ad attività linguistiche, è necessario un trattamento dei testi, orali o scritti (basato su ricezione, produzione, interazione o mediazione). (QCER, 2002: 19)

In queste poche righe sono riassunti i punti chiavi dell’insegnamento di una lingua attraverso i compiti. L’insegnamento che si basa sui task o compiti promuove attività di input e output necessari per l’apprendimento della lingua. Krashen (1985) aveva insistito a lungo sul fatto che l’input comprensibile era l’unico criterio (e sufficiente) affinché ci fosse acquisizione e dal canto suo Swain (1985) aveva dimostrato che invece è necessario anche creare opportunità in classe perché gli studenti potessero utilizzare la lingua in modo produttivo. I task  consentono di creare sequenze di attività di input e di output in cui gli studenti si misurano sia in attività di ricezione che di produzione inseguendo un obiettivo chiaro rappresentato dal compito in sé. Questo obiettivo finale fa aumentare la motivazione degli studenti e ne potenzia l’apprendimento anche, e soprattutto, perché i task richiedono l’uso di un linguaggio autentico, nel senso che si tratta di contenuti linguistici che sono necessari per portare a termine il compito finale.

Tenenbla-bla-blado presente che l’approccio orientato all’azione considera l’aula come uno spazio sociale in cui le persone si ritrovano con l’obiettivo comune di imparare qualcosa insieme, l’interazione ha un ruolo e uno spazio preponderante nelle programmazioni che seguono questo approccio (Cambra, 2003; Kramsch, 1984). Questo non vuol dire che non si dia importanza alla consapevolezza linguistica e metalinguistica anzi tutt’altro (Bange, 1992; Gombert, 1996; Ellis, 2003). In questa sequenza d’attività trovano spazio anche attività in cui si accompagnano gli studenti alla scoperta della lingua e del suo funzionamento senza però perdere di vista l’uso che si fa di una certa struttura.

Ma come mettere insieme tutti questi elementi in una sola sequenza di attività? Innanzitutto bisogna pensare la lingua in modo diverso: non più come un insieme di regole ma come un qualcosa che ci permette di fare cose grazie alle conoscenze linguistiche e alla competenza comunicativa dei discenti. Bisogna porsi domande diverse, le domande devono incentrarsi di più sul quando, come e perché facciamo le cose e non solo sulle cose che facciamo.

La prima cosa a cui pensare è quale compito comunicativo finale si vuole che gli studenti eseguano e da lì si programmano i contenuti linguistici, sociolinguistici, pragmatici… necessari per eseguire quel compito. Tali contenuti vengono poi distribuiti in quattro fasi: la presentazione dei contenuti, la preparazione per la realizzazione del compito, l’esecuzione del compito e infine la fase post-compito.

In queste fasi sono previste attività che sono più focalizzate sul significato, altre che si focalizzano di più sulla forma passando anche attraverso attività di valutazione del processo di apprendimento rapp056-069_brav2_sbk_u4-def_Página_07-ritaglioresentate almeno in parte dai compiti intermedi (QCER, 2002).

Provare per credere…

 

Bibliografia

Bange, P. (1992). A propos de la communication et de l’apprentissage de L2 (notamment dans ses formes institutionneles). AILE, 1, 53-85

Cambra Giné, M. (2003). Une approche ethnographique de la classe de langue, Paris: : LAL Langues et apprentissage des langues Didier

Ellis, R. (2003). Task-Based Language Learning and Teaching. Cambridge: Cambridge University Press.

Gombert, J-É. (1996).Activités métalinguistiques et adquisition d’une langue. AILE, 8, 41-55.

Kramsch (1984). Interaction et discours dans la classe de langue. Paris: Hatier-Crédif.

Krashen, S. (1985). The Input Hypothesis: Issues and Implications. London: Longman.

Consiglio d’Europa (2002). Quadro Comune Europeo di riferimento per le lingue: apprendimento, insegnamento, valutazione. Milano: La Nuova Italia-Oxford.

Richards, J. C. & Rodgers, T. S. (2001). Approaches and Methds in Language Teaching. Cambridge: Cambridge University Press.

Swain, M. (1985). A critical approach at the communicative approache. English Language Teaching Journal, 1, 39, 2-12.

L’approccio orientato all’azione e l’insegnamento delle lingue straniere.

L’insegnamento inteso in senso ampio deve rispondere alla necessità di una determinata società in un determinato momento. Anche l’insegnamento delle lingue straniere deve rispondere alle esigenze dettate dalle società, dagli individui. In parte, infatti, il passaggio a un insegnamento più comunicativo (Widdowson, 1978) che ebbe luogo agli inizi degli anni ‘70 si dovette anche al cambiamento che in quel periodo stava vivendo l’Europa. Con gli scambi commerciali tra i vari paesi europei in aumento e con un sempre maggior numero di cittadini che si spostavano da un paese all’altro, la necessità di insegnare una lingua straniera agli adulti con un approccio che prestasse maggior attenzione alla competenza comunicativa che alla semplice conoscenza di strutture si fece sentire più forte (Richards & Rodgers, 1986).

Il Consiglio d’Europa (CoE) rispose allora prontamente e produsse un primo documento Il Livello Soglia (apparso nella versione italiana -quinta lingua dopo inglese, francese, tedesco e spagnolo- nel 1981) e il CoE ha risposto ancora alle necessità dettate dal cambiamento della società all’inizio degli anni 2000 con la pubblicazione del Quadro comune europeo di riferimento per le lingue (da qui in avanti QCER). La società che è in continuo cambiamento richiede oggi cittadini che siano in grado di partecipare e di gestire interazioni complesse in cui entrano in gioco le conoscenze linguistiche e culturali di un individuo. Si tratta di individui efficienti linguisticamente che possiedono anche una competenza strategica che li aiutano ad usare oltre alle loro conoscenze linguistiche anche quelle non linguistiche. Questo cambio di prospettiva ha implicato un cambiamento anche nel modo in cui si concepisce l’insegnamento, lo studente, la lingua e la classe.

Il QCER del Consiglio d’Europa in quanto a metodologia di insegnamento fa riferimento all’approccio orientato all’azione, il quale interpreta il parlante e l’apprendente di una lingua come un vero e proprio attore sociale:

 “le persone che usano e apprendono una lingua sono considerate come ‘attori sociali‘, vale a dire come membri di una società che hanno compiti (di tipo non solo linguistico) da portare a termine in circostanze date, in un ambiente specifico e all’interno di un determinato campo d’azione” (QCER, 2002: 11).

In questo senso il QCER raccoglie una delle idee principali tra quelle espresse dai teorici del task-based approach e cioè che l’apprendimento di una lingua dipende dall’immersione degli studenti non solo in un “input comprensibile” ma anche da compiti che esigono agli studenti la negoziazione del significato e la partecipazione a una conversazione che abbia un senso per loro. Con il compito (task) si dà priorità al processo più che al prodotto, al significato più che alla forma (Skehan, 1996; Nunan, 2004). Si tratta di attività che in genere hanno una certa somiglianza con l’uso della lingua che si può fare in una situazione di vita reale e che portano lo studente, in quanto soggetto sociale e attraverso l’attivazione di opportune strategie, ad eseguire dei compiti (linguistici ed extralinguistici), in determinati contesti e situazioni sociali (QCER, 2002).

Questa nuova prospettiva fa cambiare anche il concetto di lingua che è intesa come un insieme di espressioni che permettono di realizzare un’attività sociale, trasformando così la lezione di lingua straniera in un avvenimento sociale e comunicativo e la classe in uno spazio sociale in cui un gruppo di persone comunica con lo scopo di imparare qualcosa insieme (Martin Peris, 2004).

Bibliografia

Galli de’ Paratesi, N. (1981). Livello Soglia per l’insegnamento dell’italiano com lingua straniera. Strasburgo: Consiglio d’Europa.

Martin Peris, E. (2004). ¿Qué significa trabajar en clase con tareas comunicativas?. RedELE. Revista electrónica de didáctica / español lengua extranjera. http://www.mecd.gob.es/dctm/redele/Material-RedEle/Revista/2004_00/2004_redELE_0_18Martin.pdf?documentId=0901e72b80e0c9e3

Nunan, D. (2004). Task-based Language Teaching. Cambridge: Cambridge University Press.

Consiglio d’Europa. (2002). Quadro Comune Europeo di Riferimento per le lingue: apprendimento, insegnamento, valutazione. Firenze: La Nuova Italia

Richards, J.C. & Rodgers, T.S. (1986). Approaches and Methods in Language Teaching. Cambridge: Cambridge University Press

Skehan, P. (1996). Second language acquisition research and task based instruction. In J. Willis e D. Willis (eds.) Challenge and Change in Language Teaching. Oxford: Heinemann, 17-30

Widdowson, H. (1978). Teaching Language as Communication. Oxford: Oxford University Press

Affinità tra le lingue: un vantaggio o una difficoltà da superare?

Un piccolo sondaggio ha messo in luce che studenti con L1 spagnolo e catalano percepiscono molto spesso in modo positivo l’affinità tra la L1 e la lingua obiettivo anche se in certi casi questa somiglianza è percepita come un ostacolo, una difficoltà che induce all’errore. I risultati si potrebbero riassumere in queste due testimonianze di alunni di livello A2-B1:

Sempre esistono parole simili al catalano o al castigliano, e quindi se non sai reagire per dire una parola puoi provare a italianizzarla, a volte va bene e altre no. Ma ci sono casi in cui puoi “predirla”.

Mi aiutano le strutture grammaticali e qualche parola, ma a volte questa somiglianza tra le lingue è negativa perché credi che tutto sia uguale e sbagli.

Non siamo di certo noi i primi a porci questa domanda. Nel 1978 Corder  aveva parlato dell’importanza che aveva la somiglianza tra le lingue nel processo di apprendimento di una lingua straniera. Più tardi, anni ’80 e ’90,  Ringbom (1987), che si occupava dell’apprendimento dell’inglese da parte di svedesi, e Schmid (1994), che analizzava l’apprendimento dell’italiano da parte di ispanofoni, osservarono che il punto di partenza nel processo di apprendimento di una lingua straniera dipende dal grado di affinità strutturale tra la L1 e la LS. Ringbom ha dimostrato, anche in studi successivi (2001, 2007), come sia importante la somiglianza interlinguistica nell’apprendimento di una L2/LS e come le similitudini e le differenze facilitino l’uso di strategie di apprendimento. A volte però queste similitudini possono portare lo studente a fidarsi troppo della somiglianza tra le lingue tanto da non essere più in grado di vedere le differenze esistenti (Ringbom, 1987; Schmidt, 1994).

In Italia, Calvi (1995) sosteneva che la distanza percepita, “cioè l’ipotesi formulata da chi apprende sulla vicinanza tipologica tra la L1 e la L2” (Calvi:67), sia una delle principali cause del transfer anche se molto spesso si tratta di un transfer positivo. Di fatto la somiglianza fonetica e lessicale può favorire la comprensione e le coincidenze nella grammatica e nella sintassi possono risultare utili per l’apprendimento di certe strutture. Più recentemente Lo Duca & Duso (2008) hanno studiato il comportamento nella produzione in italiano di studenti ispanofoni.  Le autrici hanno osservato, tra le altre cose, che vi è un gran numero di ibridismi, cioè parole in cui coesistono elementi delle due lingue in contatto, favoriti dalla vicinanza tra le lingue e comunque comprensibili per l’interlocutore. Ci sono produzioni ibride che appaiono in tutti i livelli analizzati dalle due studiose (da A1 a C1). È il caso del suffisso –ero, inesistente in italiano ma molto produttivo in spagnolo, che viene usato in eccesso e dà luogo a produzioni come gelatero o pizzero per “gelataio” e “pizzaiolo”. La produzione di ibridi diventa quindi quasi una strategia per mantenere la conversazione talvolta valida solo in quell’unico scambio interattivo. Molto spesso però gli studenti, per sfuggire alla somiglianza e la paura di cadere nell’errore, mettono in atto la strategia della differenza. Creano cioè parole che si allontanano dalla L1 evitando l’uso di termini sentiti come troppo vicini ma che invece sono corretti nella lingua obiettivo (Lo Duca & Duso, 2008; Schmid, 1994 Kellerman, 2000).

L’affinità tra le lingue è quindi una questione molto delicata che non va lasciata al caso. Molto spesso una riflessione sulla L1 o sul perché di una certa produzione degli studenti può rivelarsi utile per pensare a una didattica fatta ancor più su misura per un gruppo di studenti con determinate caratteristiche.

Bibliografia

Calvi, M. V. (1995). Didattica di lingue affini. Spagnolo e italiano. Milano: Guerini.

Corder, S. (1978). Language-Learner Language. En J. Richards (Ed.), Understandig Second and Foreign language Learning. Issues and Perspectives (pp. 71-93). Rowley: Newbury House.

Kellerman, E. (2000). Lo que la fruta puede decirnos acerca de la transferencia léxico-semántica: una dimensión no estructural de las percepciones que tiene el aprendiz sobre las relaciones lingüísticas. En C. Muñoz (Ed.), Segundas lenguas. Adquisición en aula (pp. 21-38). Barcelona: Ariel Lingüística.

Lo Duca, M. G., & Duso, E. M. (2008). “Il camionero scende dal camione”: studio sui nomi di agente nelle interlingue degli ispanofoni. En M. G. Lo Duca & I. Fratter (Eds.), Il lessico possibile. Strategie lessicali e insegnamento dell’italiano come L2 (pp. 57-98). Roma: Aracne.

Ringbom, H. (1987). The Role of the First Language in Foreign Language Learning. Clevedon: Multilingual Matters.

Ringbom, H. (2001). Lexical transfer in L3 production. En. J. Cenoz, B. Hufeisen & U. Jessner (Eds.), Cross-linguistic influence in third language acquisition: Psycolinguistic perspectives (pp. 59-68). Clededon: Multilingual Matters.

Ringbom, H. (2007). Cross-linguistic Similarity in Foreign Language Learning. Clevedon: Multilingual Matters.

Schmid, S. (1994). L’italiano degli spagnoli. Interlingue di immigrati nella Svizzera tedesca. Milano: Franco Angeli.

Lingua e cultura: una coppia inseparabile?

L’idea che l’insegnamento di una lingua straniera consista nell’insegnare le quattro abilità più la cultura è stata abbastanza generalizzata e radicata per lungo tempo. La stessa pubblicità che spesso si è fatta dei corsi di lingua italiana, includeva la dicitura “cultura” come un qualcosa a parte. La cultura era vista come una semplice informazione trasmessa attraverso la lingua e non come una caratteristica della lingua in sé. Kramsch (1993) fa notare che questa concezione è parte di un’eredità linguistica della professione e che è comune alle lingue più diffuse in Occidente. Si parla di civilisation in francese, di Landeskunde in tedesco, di cultura in spagnolo e italiano e di culture in inglese e fin non troppi anni fa lingua e cultura venivano ancora proposte in corsi separati.
Ci si è chiesti spesso che ruolo debba avere la cultura nelle lezioni di lingua straniera e nel nostro caso specifico nelle lezioni di lingua italiana a stranieri. Prima però di parlare di questo dovremmo fare una riflessione su cosa intendiamo per cultura e a quale cultura ci riferiamo: la cultura di tradizione classico-umanistica o il concetto di cultura che ci viene dall’etnologia e dall’antropologia? Il primo caso rimanda a un concetto di cultura come civiltà, di tipo accademico, scritta, come un qualcosa che porta al cambiamento, uno strumento di navigazione per guidare l’evoluzione di una società (Bauman, 2013), in parte quello che Bourdieu (2010) definiva come uno strumento concepito per marcare le differenze di classe e salvaguardarle. Il secondo invece si riferisce a un insieme di usi e costumi, credenze, modo di vita, abitudini, regole e comportamenti condivisi da un gruppo. Probabilmente una combinazione delle due cose. Non possiamo dimenticare che lo studente che si avvicina alla lingua italiana lo fa anche e a volte soprattutto per avvicinarsi alla cultura. Nella didattica è importante che siano presenti dei riferimenti alla cultura materna dello studente oltre a quelli della cultura straniera ed esplicitare gli elementi culturali impliciti per aiutarlo a reagire di fronte agli stimoli che gli arrivano dagli interlocutori e a gestire situazioni comunicative complesse. In questo modo se gli studenti saranno maleducati o ingenui sarà perché hanno deciso di esserlo e non perché non sono stati in grado di riconoscere una certa situazione nella cultura straniera.
Possiamo quindi, riprendendo Sans & Miquel (2004), distinguere tre livelli di cultura da proporre in classe : la Cultura con la C maiuscola, la cultura di tipo accademico; la cultura tout-court cioè la cultura in senso antropologico e la cultura alternativa o dei sottogruppi sociali. Tutto questo passa, ovviamente dalla lingua che l’insegnante deve proporre in classe perché il discente sia autonomo quando interagisce con gli altri. Il Quadro Comune Europeo di Riferimento per le lingue ricorda che “la conoscenza della società e della cultura della o delle comunità in cui si parla una determinata lingua è uno degli aspetti della conoscenza del mondo. Tuttavia questo aspetto è così importante per l’apprendente che vale la pena di prestarvi particolare attenzione, anche perché, diversamente che per molte altre conoscenze, è probabile che esuli dalla sua precedente esperienza e rischi di essere deformato dagli stereotipi” (QCER, 2001: 126-127). Legare la lingua e la cultura nelle lezioni di italiano LS è responsabilità di ogni insegnante.
La lingua e la cultura hanno un legame inscindibile e la lingua in sé è cultura. Non possiamo pensare di insegnare la lingua senza parlare della cultura e viceversa non possiamo trasmettere veramente la cultura se in una lezione di italiano LS non consideriamo anche la lingua come un elemento culturale e non solo un veicolo.

Bibliografia
Bauman, Z. (2013). La cultura en el mundo de la modernidad líquida. Madrid: FCE.
Bourdieu, P. (2010). Distinction: A Social Critique of te Judgement of Taste. Abdongdon:Routledge Classics.
Kramsch, C. (1993). Context and Culture in Language Teaching. Oxford: Oxford University Press.
Sans, N. & Miquel, L. (2004). El componente cultural: un ingrediente más en la classe de lengua. redELE Revista electrónica de didáctica del español lengua extranjera, número 0, http://www.mecd.gob.es/dctm/redele/Material-RedEle/Revista/2004_00/2004_redELE_0_22Miquel.pdf?documentId=0901e72b80e0c8d9

Chi fa da sé fa per tre o chi fa in tre fa meglio?

La discussione sulle attività a coppie o gruppetti in classe di lingua straniera non è nuova. Già Barnes e Todd nel 1977 segnalarono che l’interazione tra studenti senza il controllo del professore rende i discenti più attivi e autonomi nel loro processo di apprendimento e li fa sentire padroni del sapere, coscienti che quest’ultimo può essere negoziato in una conversazione con i compagni.

Dal canto suo Martin Bygate (1988) aveva sottolineato che l’input portato in classe dall’insegnante non è sufficiente perché ci sia apprendimento e che l’interazione alunno-insegnante non aiuta troppo dato che si tratta di un’interazione pensata e programmata dall’insegnante. Nell’interazione studente-studente, invece, il discente si vede obbligato a mettere insieme frasi in modo da produrre significato, deve cioè costruire il discorso in collaborazione con i compagni. È lo scaffolding collettivo, alla base del modello socio-costruttivista, che porta gli studenti a correre dei rischi, ad accettare delle sfide e che li aiuta a capire come e perché imparare. Lo studente viene posto di fronte alla necessità di utilizzare la lingua per eseguire un compito e allo stesso tempo imparare le caratteristiche del discorso parlato.

A partire dagli anni ’90 sono stati messi in risalto i vantaggi di svolgere le attività orali a gruppi o a coppie in quanto gli studenti imparano, oltre alla lingua in sé, anche a gestire l’attività. Si offre allo studente la possibilità di districarsi in situazioni molto simili alle situazioni comunicative che devono risolvere nella vita al di fuori della classe. Il lavoro a coppie o a gruppi (meglio se in tre sostenne Kerbrat-Orecchioni nel 1996 perché la negoziazione sarà più ricca) permette e obbliga gli studenti ad assumersi la responsabilità di far funzionare l’attività e l’interazione. I discenti, sentendosi più liberi perché non c’è la presenza dell’insegnante che valuta, possono realizzare l’attività seguendo il loro ritmo e verbalizzare le proprie idee per quanto poco elaborate fino ad arrivare a una produzione che gli studenti stessi considerano soddisfacente. Le attività diventano così delle “sequenze potenzialmente acquisizionali” (Matthey & De Pietro, 1997) nel senso che lo studente può riconoscere il dislivello esistente tra i modelli di lingua proposti e il suo livello di interlingua e appoggiandosi sulle conoscenze linguistiche pregresse (quelle proprie e quelle del compagno) può avvicinarsi al modello di lingua proposto.

La classe è un luogo in cui ogni partecipante entra in gioco con il proprio modo di essere, di pensare, di credere, facendo sì che ogni gruppo funzioni in modo originale rispetto agli altri. Ogni gruppetto, ogni coppia è un mondo a sé che svolge l’attività in modo originale rispetto agli altri gruppi in base ai partecipanti e alle circostanze. Nel gruppo gli studenti hanno modo di provare, rielaborare, correggersi, correggere gli altri, collaborare alla costruzione del discorso. È qui che si vede come lo studente ha eseguito l’attività per arrivare alla risposta finale. È il processo di apprendimento che ha tutto il protagonismo e non il prodotto finale.

Bibliografia

Barnes, D., Todd, F., (1977). Communication and learning in small groups, London: Routledge & Kegan Paul

Bygate, M., (1988). “Units of oral expression and language learning in small group interaction”, en Applied Linguistics, vol. 9, 1, 59-82

Kerbrat-Orecchioni, K., (1996). La conversation, Paris: Éditions de Seuil

Matthey M. & De Pietro J.F.,(1997). “La société plurilingue: utopie souhaitable ou domination acceptée?”, in Boyer, H., (ed.), Plurilinguisme: “contact” ou “conflit” de langues?, Paris: L’Harmattan, 133-190