Per tutto il secolo XX si è creduto che il contatto con la lingua obiettivo fosse il miglior modo di insegnare e imparare una nuova lingua. Questa convinzione, tanto ovvia quanto vera, aveva però in un certo modo bandito la L1 dalle classi. Per molto tempo l’uso della L1 degli studenti veniva scoraggiato persino nei casi in cui studenti e insegnanti erano parlanti della stessa ingua. Il risultato era allontanare la lezione di lingua straniera dalla realtà del contesto in cui avveniva e impedire a insegnanti e alunni di trovare dei punti di appoggio che potevano aiutarli nell’arduo compito dell’apprendimento. Questa posizione era stata rafforzata anche dalle teorie di Krashen (1982) in cui si difendeva l’importanza dell’input che lo studente riceve in lingua straniera. Durante gli anni Novanta però si è risvegliato l’interesse verso quello che “succede in classe mentre si impara una lingua”. Nel 1992 Pierre Bange ha teorizzato che nella conversazione esolingue (la conversazione tra un parlante esperto e uno meno esperto che caratterizza anche le lezioni di lingua straniera) ci fosse una bifocalizzazione dell’attenzione dei discenti: una focalizzazione centrale in cui l’attenzione dei parlanti / discenti era centrata sul tema della conversazione e una focalizzazione periferica che era più rivolta al superamento degli eventuali problemi di comunicazione che potevano apparire durante la realizzazione delle attività. Questo faceva sì che parlanti e studenti dovessero ricorrere a delle strategie per risolvere questi problemi tra le quali vi era anche l’uso della L1. Dal canto suo van Lier (1995) aveva chiarito che l’uso della L1 in certe occasioni facilita l’apprendimento delle lingue e fa dello studente un apprendente più autonomo e cosciente del proprio apprendimento. Questo pensiero rendeva quindi legittima la presenza della L1 nella lezione di lingua straniera.
In studi più recenti anche Littlewood (Littlewood &Yu, 2011), uno dei padri dell’approccio comunicativo che aveva sempre difeso la formula “solo in lingua obiettivo”, ha cominciato ad avanzare l’ipotesi che in certi casi l’uso della L1 può essere utile quando si insegna e/o impara una lingua straniera e tra gli altri indica i seguenti: 1) quando si vuole creare un ambiente armonioso in classe che favorisca l’apprendimento; 2) quando bisogna spiegare un concetto complicato e assicurarsi così la comprensione degli studenti; 3) quando si vuole risparmiare tempo nelle spiegazioni grammaticali o per dare il significato di una parola sconosciuta.
La L1 diventa così uno strumento di mediazione tra la L1 e la lingua straniera. Nello studio del 2011, Littlewood & Yu mettono in evidenza però anche il fatto che gli insegnanti sentono un senso di colpa quando usano la L1 in classe perché, anche se ritenuto un uso necessario in quanto la L1 può favorire l’apprendimento della lingua straniera (Hall & Cook, 2012), è sentito comunque come togliere spazio all’input in lingua obiettivo e quindi è percepito come qualcosa di negativo. Ovvio che non bisogna abusare dell’uso della L1, però se questa viene usata in modo ragionato e sempre con l’intenzione di aiutare lo studente ad appropriarsi del nuovo codice, può rivelarsi un prezioso alleato per insegnanti e studenti.
Bibliografia
Bange, P., (1992), “A propos de la communication et de l’apprentissage de L2 notamment dans ses formes institutionnelles”, en AILE, 1, 53-85
Hall, G. & Cook, G. (2012). “Own-language use in language teaching and learning”. Language Teaching, 45.3, 271-308.
Krashen, S. (1982). Principles and practices in second language acquisition. Oxford: Pergamon.
Littlewood, W. & Yu, B. (2011). “First language and target language in the foreign language classroom”. Language Teaching, 44.1, 64-77.
Van Lier, L. (1995). “The use of the L1 in L2 classe”. Babilonia, 2, 37-43